martedì 21 febbraio 2017

Alla fine Renzi un progetto lo ha portato a termine: la distruzione del Pd


Forse in molti non lo avevano capito ma quello di spaccare il Partito Democratico, liberandolo delle ultime frange resistenti della sinistra, era il suo progetto fin dall'inizio, il progetto di Matteo Renzi. E alla fine ci è riuscito. Tutto ebbe inizio quando era ancora sindaco e con la scusa di un incontro istituzionale con il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, si presentò a quell'incontro che non avvenne a Palazzo Chigi, sede istituzionale del governo, bensì ad Arcore. Quella sede tolse tutta l'istituzionalità del faccia a faccia che invece riguardava una strategia ben precisa: portare Renzi alla guida del Pd per traghettarlo verso l'area del centro destra. In un colpo solo i due si sarebbero liberati della sinistra, alla quale il Partito Democratico aveva sempre voltato le spalle, e della Lega per quanto riguardava il cavaliere ed avrebbero potuto stringere un patto di ferro per il governo del paese. Renzi non ce la fece al primo tentativo, battuto da Bersani, ma al secondo assestò il colpo grazie anche alla debolezza del Pd uscito da elezioni non vinte. Puntò i piedi e fece cambiare le regole delle primarie aprendole a chiunque volesse andare a votare, e quel chiunque erano certamente gli elettori del centro destra, una manovra furba e nemmeno tanto nascosta da Matteo che a più riprese andava dichiarando che per vincere era necessario andare a prendere i voti a destra. E così fù. Arrivato alla segreteria del partito e circondato da una serie di personaggi di basso profilo ma fedeli servitori pronti a saltare sul carro del vincitore, scalzò dalla sedia il povero Letta e iniziò a stringere il patto messo a punto ad Arcore con Berlusconi. Poi preso dalla sua arroganza e superbia, ma anche per dare un contentino ai futuri rottamati del Pd, tradì il patto del Nazzareno consentendo l'elezione di Mattarella ed il cavaliere lo abbandonò, naturalmente recitando la parte del tradito, spostandosi all'opposizione. Un'opposizione inutile in quanto Matteo costrinse a suo di voti di fiducia il suo partito ad approvare provvedimenti antidemocratici, riforma costituzionale e legge elettorale, e riforme contro i lavoratori, jobs act scuola e pubblica amministrazione. Il partito che era nato dal più grande partito della sinistra europea non solo aveva scelto di lasciare isolata la sinistra che non era confluita nel Pd alla sua fondazione, ma ora con Renzi di fatto attuava le politiche del centro destra: abolizione dell'art. 18, liberalizzazione dei licenziamenti, cancellazione del voto ai cittadini. Tutti provvedimenti approvati senza ascoltare le voci di dissenso della minoranza del partito che intanto iniziava a perdere i pezzi più coerenti: Civati e Fassina in testa. Con il referendum costituzionale Matteo Renzi ha poi forzato la mano mettendola sul piano personale e costringendo i dissidenti a votare un No non solo contro la riforma ma anche contro di lui. Il resto è storia di queste ultime settimane: nessuna autocritica dopo le sconfitte sia elettorali sia sancite dalla corte costituzionale, dimissioni a metà quelle da presidente del consiglio ma non dalla politica come annunciato, e alla fine dimissioni da segretario per arrivare il prima possibile a nuove primarie per essere rieletto e far magari cadere anche il governo Gentiloni. Soprattutto la mancanza di autocritica rappresenta un segnale indiscutibile del suo progetto di partenza: costringere le frange più a sinistra del partito ad andarsene insofferenti allo spostamento sempre più verso il centro del Partito Democratico. Ed ora con la fuoriuscita di Bersani, Speranza, Rossi (il più ipocrita dei tre se si pensa che cosa ha combinato in toscana con l'appoggio di Renzi) il piano arriva a compimento anche se parziale visto che Emiliano e Cuperlo alla fine sono rimasti. E qualcuno ha ancora il coraggio di definirlo un grande politico.

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